Quattro inquadrature sulla Venezia degli anni quaranta, i fascisti, gli ebrei, i borghesi, le comari, gli ubriachi ci fanno comprendere che Brass è anche Un cineasta. E i cinque minuti finali: le gondole del funerale che vanno verso il cimitero e smettono di remare per soffermarsi agli echi del discorso famigerato del Duce. È l'accenno a quello che avrebbe potuto essere il tema del film, la liberazione attraverso la sessualità e l'oscurantismo del fascismo trionfante.
Il resto dei minuti, e saranno all'incirca centocinque, sono un macello: quello compiuto sull'erotismo raffinato di un celebre romanzo giapponese (di Junichiro Tanizaki, 1886-1965) che Ichikawa ha portato sullo schermo nel 1959, e che un Oshima avrebbe sublimato come di dovere. chiedere a Brass di sublimare le sue carrellate sul sedere di Stefania Sandrelli (ed alla sua protagonista di limitare eventualmente la passione per gli spaghetti nelle settimane precedenti le riprese) sarebbe come fare ricamare un pizzo al mondiale dei pesi massimi.
Resta un cinema di tipo ginecologico con gli stessi risultati erotici e relativi rinvii filosofici di una visita di quel genere.